Sul set con Manon
Quella di Auber
Pensata dal regista Arnaud Bernard come ultima delle tre opere della rassegna Manon Manon Manon al Teatro Regio di Torino (e poi vedremo perché), ma prima in ordine di composizione, la Manon Lescaut di Daniel Auber è una lontana parente della fonte letteraria, l'Histoire du chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut pubblicata da Antoine François Prévost nel 1731 a conclusione del ciclo di romanzi Mémoires et aventures d'un homme de qualité qui s'est retiré du monde, figlia tardiva di quella nutrita progenie (trentotto opere in trentasette anni) nata dalla collaborazione fra Eugène Scribe per il libretto e, appunto, Daniel Auber per la musica, che la compone settantaquattrenne (!), e figlia anche del suo tempo e delle sue convenzioni.
Figlia del suo tempo. Fu battezzata il 23 febbraio 1856 all'Opéra Comique di Parigi e vi restò per sessantatré repliche: un successo tutto sommato modesto se paragonato ai clangori euforici scatenati da capolavori di alcuni anni prima, come quella Muette de Portici del 1828. Ma erano altri tempi. E l'Opéra ospitava un altro pubblico, quello delle trame storiche, degli effetti scenici spettacolari; quello del grand opéra, insomma, che ebbe fortuna per buona parte dell'Ottocento. Il pubblico del Secondo Impero che assiepava l'Opéra Comique, invece, voleva lavori teatrali dove si potesse ridere, dai contorni inzuccherati, dove le blandizie femminili fossero lusinghiere e civettuole ma con grazia, non esplicitamente allusive, e soprattutto all'insegna di un perbenismo medioborghese tale da esaltare e salvaguardare i valori tradizionali. Nelle mani di Scribe e Auber, il romanzo perde così la sua carica eversiva, trasformandosi in una commedia brillante, dove al massimo Manon è un po' frivola ma mai davvero colpevole, semmai sfortunata, e soprattutto sempre innamorata del suo Des Grieux, e il Marchese d'Hérigny, suo protettore, che assomma in sé i suoi vari “patrocinatori” senza mai comparire nel romanzo, è seduttivo e galante, mai un satiro dalle foie libertine (e sì che il Settecento aveva sfornato in Francia personaggi come De Sade e Restif de la Bretonne), e anzi, in punto di morte viene colto addirittura da un ravvedimento moralistico.
Figlia delle convenzioni. Il fatto che il Marchese d'Hérigny non compaia nel romanzo, è semplicemente perché nel romanzo non esiste, come non esiste la vicina di casa Marguerite, che da un lato può essere vista come una trasposizione distorta di Tiberge, amico di Des Grieux (che invece nel romanzo c'è), dall'altro come il contraltare di rettitudine di Manon, anticipatrice di quella Micaela che a sua volta nella Carmen di Mérimée non esiste perché invenzione di Meilhac e Halévy (come non esiste Liù nell'originale di Gozzi; ma il discorso si farebbe lungo). Bizzarrie operistiche dettate in questo caso dal disporre di una compagnia di canto in cui, oltre a Marie Cabel (1827-1885), abilissimo soprano di coloratura belga per il quale non a caso Auber scrive arie acrobatiche, spiccava il baritono Jean-Baptiste Faure (1830-1914), all'epoca famosissimo e ottima leva di mercato per il successo dell'opera, sicuramente di più del tenore Jules-Henri Puget (1813-1887), primo interprete di Des Grieux, che dovette accontentarsi di un ruolo più contenuto rispetto a quello che sarà in Massenet e in Puccini. Mentre a d'Hérigny toccheranno ben tre interventi solistici, infatti, Des Grieux non ne avrà nemmeno uno, limitandosi, pur presente in tutti gli snodi della trama, a cantare in duetti e pezzi d'assieme.
Il cast chiamato al Regio di Torino a dar nuova vita a questi ed altri personaggi, si difende nel complesso bene, pur senza punte di eccellenza. Alla recita di martedì 22 ottobre 2024 (buon duecentotredicesimo compleanno, Liszt!), è di scena il cast alternativo, impegnato anche nella replica del 27. Marie-Eve Munger quale Manon Lescaut è da valutare tenendo conto delle sue doti prevalentemente liriche, che emergono al meglio nel terzo atto, dove la scrittura di Auber verte su fronti più intimi ed alti. Nel lungo duetto con Des Grieux e nella morte di Manon riesce ad essere comunicativa e convincente grazie a un timbro chiaro e luminoso e un'adeguata cura del fraseggio, e a un bel canto in piano specialmente durante la preghiera finale. Il rovescio della medaglia sono le arie di bravura di primo e secondo atto, in cui le abbondanti fioriture, non solo della famosa Bourbonnaise, quell' éclat de rire così chiamata per i frequenti scoppi di risa (resi con una scala discendente di La maggiore, con punte fino al Re acuto), ma anche del couplets introduttivo, di Vous, que cette parure exquise e del duetto col Marchese del secondo atto, sono eseguite sì, con slancio e impegno, ma non trovano però quell'involo e quella destrezza richieste per la parte. Punto debole sono soprattutto gli acuti, che risultano un po' stretti e pungenti. Nel complesso, tuttavia, bilanciando con le suddette doti liriche e cantabili e con un'espressione corporea che tiene fede al personaggio volubile e capriccioso, la prestazione di Munger può attestarsi sul più che discreto. Dal punto di vista vocale sembra più adatta al ruolo la collega del primo cast, Rocío Pérez, ascoltata giovedì 24 ottobre, che mostra maggior squillo e smaltate agilità, sgranando bene gli staccati e i picchettati e dimostrando in generale una maggior disinvoltura nelle colorature, pur condividendo con Munger una voce di volume contenuto e difficoltà simili negli acuti. Bourbonnaise a parte, con Plus de rêve ha la possibilità di sfoggiare anche un bel registro espressivo larmoyant, seguito da gorgheggi che riscuotono applausi scroscianti. Si disimpegna bene anche dal punto di vista attoriale.
Edward Nelson è un Marchese d'Herigny espressivo e duttile, voce di stampo chiaro e dotato naturalmente di un canto aggraziato e ben portato. Sebbene rischi di essere a tratti coperto dall'orchestra, a causa di una voce anche qui un po' piccola e di un registro grave non troppo solido, lo si ascolta con piacere lungo tutta la sua parte, che ha il suo exploit soprattutto in Et vermeille et fraîche, l'aria d'apertura, e in generale nel primo atto, con un coinvolgimento scenico convincente nella scena del pranzo non pagato da Bancelin – come non vedere qui l'anticipazione del pasto scroccato dai bohèmien pucciniani? Coinvolgimento scenico che invece riesce al meglio al d'Hérigny di Armando Noguera, del primo cast, lungo tutto il secondo atto (senza nulla togliere al primo!), nei lunghi couplets Manon est frivole et légère e Je veux qu'ici vous soyez reine come nei duetti con la protagonista, in cui esibisce nobile accentazione, bel fraseggio e timbro interessante, chiaro e talvolta tendente al tenorile, a conferma dei consensi meritati quale Bailli nel recente Werther scaligero. E se il duello con Des Grieux appare volutamente caricaturato, la scena della morte del suo personaggio è tratteggiata col dovuto trasporto drammatico, dove si depone la maschera della leggerezza e si intuisce che qualcosa sta per cambiare.
Doti vocali presenti ma non espresse al meglio per il Des Grieux di Marco Ciaponi, dal timbro chiaro e solare, voce rossiniana forse anche qui non messa al servizio di un ruolo che la valorizza al meglio ma ad ogni modo ben utilizzata, con centri e gravi sicuri e un poco meno prestante in acuto. Attorialmente risulta credibile e naturale, dote in comune col Des Grieux di Sébastien Guèze, del primo cast, che dalla sua ha una dizione più sciolta del francese, sua lingua madre, tornitura di frase migliore e voce più rotonda e presente.
Il resto del cast, in comune per le due compagnie, annovera artisti complessivamente validi. Si parte dal Lescaut di Francesco Salvadori, basso piuttosto solido, scuro, ben timbrato, con una punta di ruvidità che contribuisce a delineare le caratteristiche di arrivismo e rozzezza d'animo del suo personaggio, avvalorato dal suo carisma scenico. Cammeo di lusso per la Madame Bancelin di Manuela Custer, già apprezzata Marquise de Berkenfield su questo stesso palcoscenico nella Fille donizettiana della stagione scorsa. Si ritrova qui il bel velluto caldo e spesso della sua voce e una pregnante espressività scenica. Cavernoso e di gran volume vocale il Monsieur Durozeau di Paolo Battaglia, leggero e deboluccio il Gervais di Anicio Zorzi Giustiniani, fidanzato nell'opera di Marguerite, qui interpretata da Lamia Beuque, spontanea nella recitazione quanto fresca, delicata, graziosa ed espressiva nel canto. Guillaume Andrieux dà vita a un Renaud, l'avvinazzato ispettore dei detenuti che nell'enfasi di una recitazione caricaturata deborda un po' fuori dalle righe, ma che vocalmente dispone di uno strumento ampio e strutturato. Buoni infine gli allievi del Regio Ensemble, il Sergente di Tyler Zimmermann, il Borghese di Juan José-Medina e la Zaby di Albina Tonkikh, privata della sua ballata al terzo atto.
Del resto, ai tagli è stato giocoforza ricorrere, soprattutto a livello dei dialoghi parlati. Musicalmente, invece, Guillaume Tournaire riesce a tenere sempre viva l'attenzione e a non far calare la tensione nelle diverse sezioni dell'opera, grazie a un uso intelligente dell'orchestra, la splendida Orchestra del Regio che ancora una volta funziona a meraviglia nel rendere i colori e gli impasti timbrici – menzione d'onore per gli assoli di clarinetto di Antonio Capolupo e di violino di Sergey Galaktionov, e per la meravigliosa e calda sezione dei violoncelli – e a calibrare la concertazione a favore di un riuscito equilibro voci-strumenti. La morbidezza e la leggerezza con cui conduce la conclusione, poi, lasciano in chi scrive ottime e durature impressioni.
La riuscita complessiva della recita è anche merito del progetto registico di Arnaud Bernard, che porta la Manon di Auber per la prima volta in assoluto sul palcoscenico del Regio (in Italia il titolo approdò appena un quarantennio fa: nel 1984 al Filarmonico di Verona) e che collabora qui con Yamal das Irmich. Per questo primo affondo nel connubio cinema-teatro, Bernard attinge all'epoca del muto. Durante l'Ouverture, gli entr'acte e gli intermezzi, che in alcuni casi servono anche per i cambi scena a sipario aperto, vengono proiettati spezzoni di When a man loves, primo adattamento cinematografico di Manon, datato 1927 e diretto dall'americano Alan Crosland (servizio video di Marcello Alongi); tali spezzoni servono a cucire i fili della trama lasciati cadere nell'opera, come la scena dell'incontro tra Manon e Des Grieux ad Amiens o la deportazione in Louisiana. Il loro uso è parco e non invadente, anzi, aiuta a calare lo spettatore nella dimensione filmica, meglio resa sul palcoscenico dove è allestito un set cinematografico in divenire, dalla grigia e spoglia mansarda e dal dehors di Bancelin, ai raffinati interni grigio chiaro del palazzo di d'Hérigny, fino alla casa coloniale dove Marguerite e Gervais si sono appena trasferiti, con tanto di americanissima sedia a dondolo sotto il porticato e schiavi neri a spostare balle di cotone (e tanto per tornare ai valori borghesi di cui sopra, così si rimarca il concetto che lavorando ci si costruisce un futuro: con Gervais e Marguerite che il pubblico ritrova sposati a fine opera; la cicala e la formica calate in teatro). Attorno a questo set si muove la troupe di macchinisti, con la manovella della cinepresa in azione per riprendere le inquadrature sempre criticate da un indispettito regista con megafono e bombetta. Soluzioni simili erano state trovate la stagione scorsa da Valentina Carrasco nell'allestire La fanciulla del West come un western di Sergio Leone; e, fatte le debite differenze, funzionano anche qui, soprattutto perché calate in un progetto teatral-cinematografico triplicato. Ingegnosa l'idea di usare la specchiera della consolle da toeletta come schermo dove continuare a proiettare scene del film. Questi set vengono a loro volta collocati idealmente nello stabilimento cinematografico di Georges Méliès a Montreuil, ricostruito e stilizzato sullo sfondo. Le valide scene di Alessandro Camera, illuminate dalle luci di Fiammetta Baldiserri, trovano un riscontro, fedele all'epoca del romanzo, negli azzeccatissimi costumi settecenteschi di Carla Ricotti, con Manon e Marguerite che non abbandonano mai il loro stinto abito da grisette e l'abbondanza di ciprie, parrucche, nei finti e tinte pastello degli altri.
Ma tutto questo si sospende al terzo atto. Se già nella scena della piantagione in Louisiana il megafono e la cinepresa giacciono da un lato, con la finzione del cinema sospesa, all'ultima scena, con gli amanti dispersi nella natura selvaggia, la finzione è del tutto soppressa: il palcoscenico è nudo, con un solo grande fondale dipinto a riprodurre l'intricato fogliame della foresta. Il cinema lascia il posto al teatro, quello di una volta, fatto a mano, e il teatro alla vita vera, quando anche il fondale si solleva e le luci si abbassano: i coristi dell'ottimo Coro del Regio, diretti da Ulisse Trabacchin e che in questa produzione danno prova non solo della consueta perizia tecnica di canto ma di non comuni doti di recitazione, si dispongono sotto tre pannelli che richiamano le tre Manon, alle quali secondo il progetto di Bernard il pubblico ha già assistito, rappresentate dai volti di Dolores Costello per Auber, di Brigitte Bardot per Massenet e di Arletty per Puccini: e sotto ciascun pannello, un terzo dei coristi è vestito coi costumi delle rispettive opere. Ma a contemplare la fine di Manon, ormai trasfigurata e sposa spirituale del suo Des Grieux, non ci sono solo i coristi che idealmente salutano il pubblico alla fine di una trilogia concepita all'indietro nel tempo, stando ai debutti delle opere: è forse l'intera società che assiste allo scempio di una creatura morta per il barbaglio di un ninnolo, accecata dal lusso e finita in perdizione per esso: uno dei tanti idoli che volenti o nolenti il mondo, da sempre, ci costringe ad adorare.
Christian Speranza
31/10/2024
Le foto del servizio sono di Daniele Ratti.
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